venerdì 18 dicembre 2015

Mandala e Yantra


Quel grande studioso dell’Oriente che fu Giuseppe Tucci (1894-1984) scrisse in un suo libro del 1949: “Gli Indiani non hanno concepito la vita come una lotta fra il bene ed il male, la virtù e il peccato, ma come opposizione fra [..la] coscienza luminosa ed il suo contrario, la psiche e il subconscio che essi chiamano maya[1].
Maya, ovvero l’illusione magica[2] che fa apparire come realmente esistenti “i fenomeni e le loro differenziazioni di ordine nominale e formale[3]. Maya, “il velo che copre la vera essenza del Brahman così che gli uomini non riescono a distinguere la fondamentale unità del cosmo e restano ingannati dalla molteplicità del mondo fenomenico[4].
La coscienza divina nella quale “non esisteva un io contrapposto a un non io [..] si offusca[5]. A causa del velo di maya il Supremo Essere non riconosce più che soggetto ed oggetto sono identici e si costituisce così l’io-individuo, racchiuso nelle sue corazze, i cinque kosha (involucri): il corpo fatto di cibo (annamayakosha); la forza vitale, fatta dei soffi che lo abbandonano alla morte (pranamayakosha); la mente, fatta di passioni, di emozioni, di volizioni (manomayakosha); l’intellezione, la conoscenza ordinaria (vijñanamayakosha); il corpo di beatitudine (anandamayakosha), raggiungibile in certi stati mistici o estatici, ma pur sempre impermanenti, e che non possono quindi essere l’Atman, quella più intima essenza che solo la forza di maya fa sì che vediamo come distinta dal Brahman, l’Assoluto non-differenziato.
L’uomo è sì coscienza decaduta nel tempo e nello spazio, offuscata, ma la liberazione [da maya, dall’ignoranza-avidya] dipende da lui medesimo[6]: per l’India non esiste alcun Salvatore. I Buddha, gli Avatara, i Guru, possono solo indicare la Via, non percorrerla al posto dell’uomo. La Conoscenza che libera (Vidya) è il frutto di una personale, lunga, faticosa ascesi. E non si tratta di una conoscenza logica, intellettuale, concettuale, fondata sull’accumulo di nozioni. Questa può essere al più uno strumento preparatorio – talvolta è invece un ostacolo. “La vera conoscenza [..] è esperienza[7] – dice Tucci, che aveva una comprensione diretta, empirica, di ciò di cui parlava – alla quale si adegua l’azione; è Conoscenza che trasforma la vita, che espelle l’ignoranza innata, lacera il velo di maya che offusca la Coscienza divina. Tale Conoscenza è nelle potenzialità dell’uomo: l’uomo è della stessa essenza di Shiva, dicono le scuole Shaiva; e vi è identità tra i Buddha e gli esseri, nei quali è già presente il Tathagatagarbha, la natura di Buddha, secondo il Buddhismo Mahayana.

 Uno dei mezzi che la plurimillenaria storia della spiritualità indiana ha messo a disposizione dell’uomo per aiutarlo nel suo cammino di liberazione dall’ignoranza e quindi dalla sofferenza è il mandala, visiva rappresentazione schematica del processo di dis-integrazione nell’illusoria pluralità fenomenica e strumento di re-integrazione nell’Uno.
Secondo quanto si legge nell’indispensabile Dizionario del Buddhismo di Philippe Cornu, il termine sanscrito mandala significa, alla lettera, “la schiuma che si forma alla superficie dell’acqua di cottura del riso[8] (manda) e la sua estrazione (la).
Nell’ambito delle tradizioni hindu e buddhiste mandala indica il “centro”, un “contenuto interiore” (manda, visto qui come quintessenza di ogni cosa), circondato da un elemento che lo racchiude (la). In pratica, si tratta di “un cerchio che isola una particolare superficie della zona circostante e che, una volta consacrato, risulta purificato per scopi rituali e liturgici[9].
Ad una prima osservazione un mandala a due dimensioni è un complesso diagramma circolare, suscettibile di numerosissime variazioni.
Fondamentalmente è composto da un margine circolare che racchiude un quadrato diviso in quattro triangoli. Al centro di ogni triangolo e nel cerchio più piccolo al centro del mandala è rappresentata una divinità, anche in modo simbolico, ad esempio con lettere sanscrite[10].
I mandala possono essere dipinti su legno, carta, pietra, tela, oppure tracciati sul terreno o su altri supporti con sabbie colorate.
Il Borobudur
Tale struttura va osservata anche in un’ottica tridimensionale: infatti un tempio hindu o uno stupa buddhista, se visti dall’alto, raffigurano, anzi sono, un mandala. Ne è un classico esempio il Borobudur di Giava.
Ma il mandala non è un’opera d’arte – sicuramente non nel senso dell’estetica occidentale – e non è nemmeno soltanto uno spazio consacrato e dedicato ai riti. Come scrive Tucci, “è di fatto un cosmogramma, è l’universo intero nel suo schema essenziale, nel suo processo di emanazione e riassorbimento[11], quindi esso è l’intero processo della manifestazione, in senso sia spaziale che temporale.
Ma un mandala è ancora qualcosa di più di una mera descrizione del processo cosmogonico: è in realtà, detto ancora con le parole di Tucci, uno “psicocosmogramma”: creare, utilizzare (e distruggere) il mandala nella pratica religiosa, ovviamente secondo modalità molto precise, significa avere accesso all’essenza delle percezioni fenomeniche, tornare a quel “centro” che per il buddhista è la mente di saggezza, bodhicitta, la Natura di Buddha, e per un hindu è l’unione con Dio, il samadhi, identificazione di soggetto e oggetto. Ovvero, per entrambi, liberazione, risveglio.
È un “rifluire delle esperienze della psiche alla concentrazione, per ritrovare l’unità della coscienza, raccolta e non distratta, e per scoprire il principio ideale delle cose[12].

Come risulta evidente, i mandala non sono frutto né di scelte razionali né di casuali fantasie umane. Non sono l’effetto “di un’arbitraria costruzione, ma il riflesso [..] di intuizioni personali; per virtù quasi nativa, lo spirito umano traduce visibilmente l’eterno contrasto tra la luminosità essenziale della sua coscienza e le forze che la occultano[13]. Gli schemi, il centro, i petali, le forme geometriche, i colori, tutti gli elementi dei mandala non sono tali sulla base di astratte teorie teologiche – meno che mai estetiche. Al contrario, è l’introspezione dei praticanti che li ha scoperti – rivelati, si può dire –, ne ha fissato le regole, i modelli e le misure, li ha classificati limitando la spontaneità delle visioni. In tal modo il mandala diviene “a sua volta sussidio di meditazione, strumento esterno per suscitare e stimolare nel raccoglimento quelle visioni[14].

Ma, come si evince da quanto detto, il mandala non è solo un oggetto esterno, costruito e utilizzato dal praticante come altro-da-sé. Partendo dal punto di vista dello Yoga e di altre tradizioni, non solo orientali[15], secondo cui macro e micro-cosmo, Universo e corpo umano, sono tra loro analoghi, al mandala esterno corrisponde il mandala interno, nel nostro corpo, che contiene in sé gli stessi simboli viventi, gli stessi dei. Un esempio tra molti: il centro del mandala corrisponde nel corpo umano al brahmarandhra, la cavità sulla sommità del capo tra le due ossa parietale e occipitale (la c.d. “fontanella”). Lì si trova una estremità di sushumna nadi, il canale di energia mediano che attraversa il corpo lungo la colonna vertebrale, vero e proprio axis mundi attorno al quale si distribuiscono i centri di energia sottile (chakra), così come i vari piani celesti della cosmologia indiana sono disposti intorno al mitico monte Sumeru.

A conclusioni fondamentalmente identiche pervenne in Occidente, per vie diverse ma non così lontane tra loro, lo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961), uno dei padri della psicoanalisi. In seguito alla rottura con Sigmund Freud (1856-1939), Jung entrò in un periodo di profonda crisi, da cui cercò di uscire confrontandosi con l’inconscio, anche per mezzo della pittura. Notò così che stava creando immagini simmetriche e regolari che in seguito identificò come mandala. Soprattutto capì “che quelle figure non erano altro che immagini della completezza della personalità[16], nelle quali vedeva all’opera ciò che gli chiamava il Sé, ovvero l’intero suo essere.
Un "mandala" di C.G. Jung
All’introspezione personale Jung affiancò lo studio dei testi e delle dottrine orientali, interpretandone i miti e i simboli dal punto di vista della nascente psicoanalisi. Capì così che i mandala che comparivano nei suoi disegni e nei sogni e nelle fantasie di molti suoi pazienti[17] non erano immagini esterne bensì interiori, fenomeni universali archetipici, una sorta di “mappe”, di ideogrammi di contenuti inconsci.
Tali mappe costituiscono una guida delle strutture – cosmologiche e psicologiche, del mondo divino e di quello mentale – entro cui il praticante percorrerà la sua Via. In tal senso, come intuisce Jung, il vero mandala non è quello visibile, dipinto su una pelle di yak o su una tavola di legno, bensì quello interiore. Il suo scopo è quello di fungere da supporto per le pratiche meditative di colui che contemplando i “processi rappresentati nel mandala [prende] coscienza della divinità, [si riconosce] egli stesso come dio ed [esce] dall’illusione dell’unicità individuale per ritornare all’universale totalità dello stato divino[18].
Come si vede, mentre Freud valutava la religione in termini patologici, come una sorta di nevrosi dell’umanità, Jung “non considerava le credenze e le pratiche religiose fantasie superstiziose o stravaganti né curiosità etnologiche, ma piuttosto manifestazioni di una predisposizione universale, inconscia[19], che esprimono l’universale bisogno umano di totalità.

Restando ancora per un istante nell’ambito delle tradizioni spirituali dell’Occidente, è inoltre possibile trovare somiglianze strutturali e funzionali tra il mandala ed il labirinto. Il labirinto rappresenta infatti una “discesa agli inferi”, una sorta di “morte iniziatica” seguita da una “resurrezione” dell’adepto, interiormente rinnovato, purificato. Non a caso il labirinto ricorda da vicino la struttura anatomica del cervello umano (e dell’intestino, al quale il cervello stesso è strettamente correlato).


Lo yantra

Nei loro scritti sul mandala Tucci, Jung e molti altri fanno soprattutto riferimento alla tradizione buddhista, in particolare alle scuole tibetane (il Vajrayana, il Buddhismo tantrico, esoterico). Ma dei mandala si fa largo uso anche nell’Induismo (d’altra parte, l’origine del mandala è indiana), ad esempio nelle scuole tantriche del Kashmir, di tradizione shivaita.
In questo caso si parlerà allora, più precisamente, di yantra, che rappresenta lo schema essenziale del mandala. Lo yantra è infatti un diagramma lineare, nel quale le immagini delle divinità vengono sostituite con i mantra (cioè i fonemi)[20] corrispondenti, oppure con combinazioni di triangoli o con fiori di loto che riportano sui petali i caratteri sanscriti con i fonemi delle divinità.
Ciò avvenne soprattutto – spiega Tucci – per causa di una intransigenza e quasi ritrosia a rivelarsi che invase le scuole misteriosofiche scivaite e shakta dell’India medievale cui ripugnava mostrare ai non iniziati l’immagine delle deità[21].
Il termine sanscrito yantra è composto dal suffisso –tra, che si usa nella formazione di parole indicanti strumenti[22], e da yam, verbo che significa dominare, sottomettere, “ottenere il controllo dell’energia insita in un elemento o in un essere”[23]. Uno yantra è quindi uno strumento “atto a fornire energia per uno scopo definito dalla volontà umana[24]. Una diga per canalizzare le acque è uno yantra. In ambito religioso, una statua del dio o un suo dipinto sono yantra, in quanto mezzi di devozione.
Più precisamente, possiamo dunque dire con le parole di Heinrich Zimmer che “lo yantra è uno strumento che serve a controllare le forze psichiche concentrandole su di un motivo geometrico, in modo tale che il motivo venga riprodotto dalla capacità di visualizzazione dell’adorante. È una macchina per stimolare visualizzazioni, meditazioni ed esperienze interiori. Un dato motivo può suggerire una visione statica della divinità da adorare, della presenza sovrumana da realizzare, oppure può produrre una serie di visualizzazioni che procedono e si sviluppano l’una dall’altra come momenti o fasi di un processo.
Quest’ultimo tipo di yantra è il più ricco e interessante, ed è quello che richiede il maggiore impegno dall'iniziato. Opera in due direzioni: prima in avanti, come un movimento evolutivo, poi indietro, come processo di involuzione che annulla le visioni precedentemente sviluppate. In altre parole esso riproduce in miniatura gli stadi o aspetti della manifestazione dell’Assoluto nell’evoluzione e involuzione del mondo[..].
Le visualizzazioni, meditazioni ed esperienze generate dallo yantra devono essere considerate [..] non solo come riflessi dell’essenza divina nella sua produzione e distruzione dell'universo, ma allo stesso tempo (poiché i processi cosmici e gli stadi evolutivi sono riprodotti nella storia e nella struttura dell’organismo umano[25]) come emanazioni della psiche del devoto. Quando sono utilizzati in connessione con la pratica dello yoga, i contenuti dello yantra rappresentano gli stadi di coscienza che dallo stato quotidiano di ingenua «ignoranza» (avidya) conducono all’interiorità, attraverso i gradi dell’esperienza yogica, fino alla realizzazione del Sé Universale (brahman-atman)[26].

Lo Shri Yantra
Un classico esempio di mandala induista è lo Shri Yantra (o Shri Chakra), lo Yantra (la Ruota) di Shri, laddove Shri è la shakti, la divina “potenza motrice dell’Universo in virtù della quale dio si manifesta e si dispiega nelle cose[27].
Fondamentalmente, la figura si compone di 9 triangoli intersecantisi tra loro, di cui 4 col vertice rivolto verso l'alto (detti vahni, fuoco: simbolo del principio maschile, linga) e 5 verso il basso (shakti: il principio femminile, yoni). I 9 triangoli sono circondati da due ordini circolari di petali, il primo composto di 8 petali e l'al­tro di 16. Infine una tripla cinta, orientata nello spazio secondo i 4 punti cardinali, con 4 porte, racchiude il tutto. È chiamata bhupur (corpo, baluardo terrestre), e rappresenta un santuario con le sue porte di accesso e con una breve rampa di scale che sale verso il centro, sede del dio e cuore del devoto. La figura originale è spesso colorata diversamente secondo l'insieme degli angoli.

Nella meditazione sistematica di questo yantra si può andare dal centro verso questa cinta, con una idea di creazione, di espansione; oppure si può andare dall'esterno verso il punto centrale, in una dissoluzione continua e progressiva che cancella a poco a poco le illusioni dell'Universo per dirigere la coscienza verso la realtà ultima.
Nel seguente commento si partirà dall'esterno verso il centro (processo di dissolvimento).

Bhupur è la tripla cintura, con 4 porte, che circonda lo yantra. La linea esterna di bhupur simboleggia il potere materiale e l'involu­cro grossolano del corpo umano; la linea intermedia rappresenta le 8 divinità che presiedono agli 8 poteri che i primi contatti col mondo spirituale fanno ottenere; la linea interna simboleggia i 10 centri (chakra) di energia sottile nel corpo umano, che il praticante mette in gioco in questa medi­tazione.
16 petali formano la prima corona dello yantra. Ogni petalo contiene il nome del dio corrispondente, a fianco della lettera sanscri­ta a lui consacrata. Vi sono quindi 16 divinità che presiedono a 16 lettere dell'alfabeto e che agiscono in 16 mantra.
Gli 8 petali più interni fanno già riferimento ai piani più sottili dell’Essere: gli 8 dei che presiedono ad ogni petalo agiscono su 5 facoltà di sensazioni e di azione dell'essere umano che hanno un doppio aspetto: psichico e fisico. Taluni fenomeni psichici (es. la telepatia e la chiaroveggenza) appartengono a questo livello.
I 9 triangoli (4 vahni + 5 shakti) rappresentano l’Assoluto che si differenzia, “l’attività creativa dell’energia cosmica maschile e femminile in stadi successivi dell’evoluzione[28].
La conquista dei piani sottili passa innanzitutto attraverso i 14 angoli esterni formati dalle interse­zioni dei triangoli, presieduti dalle Yogini (femminile di Yogi) del culto tantrico. Ogni angolo corrisponde ad una parte del corpo umano: orecchie, occhi, spazio fra gli occhi, organi sessuali, piedi, fegato, lingua ecc.
Successivamente, si incontrano i 10 angoli esterni, presieduti dalle "Yogini Kula", o di gruppo. Poi, i 10 angoli interni e gli ultimi 8 angoli, governati dalle “Yogini del Verbo”.
A questo punto, così terminata la conquista dei piani sottili, si passa agli stati non-differenziati. Si noti qui che mentre 4 dei 5 triangoli-shakti si accoppiano con ognuno dei 4 triangoli-vahni, il quinto shakti rimane a sé stante, essendo in unione con il Punto Centrale. Questo triangolo simboleggia la Grande Illuminazione che dona "tutti i segreti", la Shakti originaria, consorte dello Shiva trascendente.
Infine, il Punto Centrale, bindu, la goccia, contrassegnato dal mantra SHRIM, il punto di massima potenza, il Brahman puro e immobile. Il punto, ente privo di parti e di dimensioni, l’axis mundi visto dall’alto, da cui si espande l’intero yantra.
È la Suprema Unione, lo Shiva-Shakti, l’Androgino, lo Hieròs gamòs (Nozze sacre) alchemico rappresentato in un diagramma astratto che permette di “comprendere il segreto di quello straordinario miraggio che è il mondo[29].
È lo stato di Ananda, Gioia pura, un riflesso della completa liberazione da ogni stato condizionato che per il praticante realizzato, essendo ancora fornito di un corpo umano, sarà raggiungibile solo una volta varcate le soglie della morte.





[1] G. Tucci, Teoria e pratica del Mandala, Ed. Ubaldini, pag. 22-23.
[2] Maya è anche la dea che personifica l’illusione. La parola “magia” ha origine dalla stessa radice di maya, ma-, da cui derivano termini che significano “misurare”, “mostrare”, “costruire”. Maya è quindi un miracoloso potere creativo, una abilità sovrannaturale che può essere ingannatrice. Cfr. M. Stutley – J. Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini, pag. 275.
[3] Id. pag. 275.
[4] V. Sirtori (a cura di), Dizionario delle religioni orientali, Ed. Vallardi, pag. 200.
[5] Tucci, pag. 23.
[6] Id. pag. 27.
[7] Id. pag. 28-29.
[8] Ph. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 365.
[9] Stutley, pag. 260.
[10] Id. pag. 260.
[11] Tucci, pag. 37.
[12] Id. pag. 40.
[13] Id. pag. 51.
[14] Id. pag. 52.
[15]Tutto ciò che è in alto è come ciò che è in basso, tutto ciò che è in basso è come ciò che è in alto”. Sono parole di Ermete Trismegisto, il personaggio mitico di età pre-classica, venerato come maestro di sapienza e ritenuto l'autore del Corpus Hermeticum.
[16] J. Clarke, Jung e l’Oriente, Ed. ECIG, pag. 178.
[17] Jung si accertò costantemente che i pazienti che “creavano” dei mandala non avessero alcun tipo di conoscenza delle dottrine e delle simbologie orientali.
[18] C.G. Jung, Simbolismo del mandala, in Opere complete vol. 9*, Ed. Boringhieri, pag. 349. A proposito del riconoscere se stessi come dio, nelle Upanishad si legge: “Chi venera come distinta [da sé] una divinità pensando ‘Essa è una cosa e io sono un’altra’, costui non ha verace sapienza, ma è per gli dei come una bestia”. In: C. Della Casa (a cura di), Upanishad, Ed.UTET pag. 72.
[19] Clarke, pag. 184.
[20] Il mantra è, molto sinteticamente, “uno strumento per evocare o produrre qualcosa nella mente e specificamente una formula sacra o un incantesimo magico per evocare o richiamare alla mente la visione e la presenza interiore di un dio”. In: H. Zimmer, Miti e simboli dell’India, Ed. Adelphi, pag. 130.
[21] Tucci, pag. 61.
[22] Ad esempio, khan significa scavare, khanitra è uno strumento per scavare: una zappa, una vanga ecc.; nello stesso modo, mantra, da man, pensare (manas = mente) + -tra, è uno strumento della (o per la) mente.
[23] Zimmer, pag. 130.
[24] Id.
[25] In base al principio secondo cui macro e micro-cosmo, Universo e corpo umano, sono tra loro analoghi.
[26] Zimmer, pag. 131-132.
[27] Tucci, pag. 61.
[28] Zimmer, pag. 135.
[29] Id. pag. 136.

Nessun commento: